“Non si finirà mai di essere grati all’errore: se non ci fosse, non ci sarebbe il nostro lavoro”. “Ti dirò di più: senza l’errore, non ci sarebbe neppure lo scrittore e tutta quanta la scrittura!”.
Una frase erronea non di rado confessa i motivi che hanno portato l’autore, inconsapevolmente, a distorcerne la giusta forma. Motivi di grammatica psichica.
Per tutta la durata dell’affinazione tre psichismi fatalmente si intrecciano, si urtano, si ricombinano: la psiche dello scrittore, quella dell’affinatore, e l’anima del testo.
L’errore, se ben valutato, avvicina lo scrittore al suo libro molto più della cosa subito ben scritta.
Quelle parole fuori luogo che infine ritrovano la giusta casa nominale; quella frase assurda finalmente sistemata mantenendo la sua carica eccentrica; il discorso che ora dice senza timore quel che doveva dire, nel modo suo proprio: netto, senza confusione. Il testo pare esserci in qualche modo grato; dalla pagina affinata spande ottimismo; e proprio come un’animale ferito che si è lasciato curare, ora quella parte di libro che era problematica si lascia leggere e ammirare per quanto è bella e fili via liscia.
Di regola, in un libro di narrativa alle prime armi le descrizioni paesaggistiche riescono senza troppi inceppi; là un bel sole si alza bene; lì la collina si riveste di buona primavera; e poi ci sono la luna e le stelle al molo di notte e le marine colte in ogni stagione, punti di forza dello scrittore come del pittore amatoriale; gli errori clamorosi, i veri e propri blocchi testuali, riguardano le descrizioni del cuore, i sentimenti, gli affetti: tutte cose risolvibili con accurata affinazione, non senza sforzo; i veri e propri errori restii al trattamento hanno a che fare, invece, con i pensieri cosiddetti astratti e i contenuti cosiddetti ideali.
Non pochi errori nascono perché è arduo di per sé, e fa paura, affondare davvero il colpo.
Ogni scritto che ambisce ad essere testo letterario costringe ad elaborare l’automatismo orale del suo autore.
Dall’oralità allo scritto il viaggio è lungo, come l’errore testimonia.
“Sai che ti dico? La lingua scritta mi sembra sempre a un po’ troppo bacchettona, come certe famiglie rigide e piene di formalismi”. “Già, si capisce allora l’insistenza delle grammatiche aleatorie del dialetto di origine come un tentativo di affrancamento dalla lingua madre da parte dello scrittore a cui torna utile, e non poco, anche l’errore”.
Quegli accenti sballati; quelle doppie sfuggite che facevano arrabbiare la maestra; tutte le espressioni che vanno bene a dirsi ma non a scriversi… Non si finisce mai di pagare il debito alla propria origine territoriale. Scrivere è un cambio di stato – la comunicazione di un proprio stato interiore in formazione.
Minuzie capziose che non finiscono più, maniacale attenzione ai dettagli: il romanzo fantasy disseminato di burocratese da commercialista… Il testo non cessa di confessare anche quelle ingenuità davvero sintomatiche, i vizi di competenza, il marchio linguistico dato dal ruolo sociale dell’autore al suo primo romanzo. E anche questo è un indice che guida verso ciò che un testo vuole essere.
“Già, è palese che il testo letterario ha una volontà sua propria e non coincide in tutto e per tutto con quella del suo autore”. “Così palese che in casi eccezionali, laddove il talento è mosso da vera e propria genialità, si giunge all’estraneità quasi totale dell’opera dal suo autore”.
Il testo è produttore di errori. L’errore è parte della sua misteriosa natura di segno vivo. L’errore gli è assolutamente necessario. Essere lingua scritta, strato di memorie alfabetiche, viaggio nella lingua madre che non cessa di generare nuova discendenza di parole, implica l’errore quale strategia di sopravvivenza del senso.
“La psicologia sperimentale non ha fatto altro che confermare ciò che sappiamo dall’esperienza comune: la mente ricostruisce la parola giusta e non vede l’errore – non vuole vederlo”. “Che poi ci si convinca anche che l’errore sia invece la cosa giusta, questo è un altro discorso ancora!”.
L’errore importante - ad esempio quello del senso di una frase, quello della modellazione di un personaggio, quello di coerenza di un dialogo e così via - se ne sta ben nascosto fra le altre righe che funzionano senza troppi problemi. Proprio come le perle più preziose di un qualsiasi testo, restie a darsi alle letture veloci e ingenue, l’errore “strutturale” riesce di regola a farla franca sfuggendo persino ai raggi x dei segugi dell’errorino di grammatica.
“Ti confesso la mia sfiducia: a che serve tutta questa cura che mettiamo al testo? A volte mi verrebbe da fare come la maggior parte delle piccole e medie case editrici, che risparmiano sull’editing perché dicono: che ce ne frega, tanto nessuno si accorge di nulla, sarà l’un per cento dei lettori a notare la differenza fra un libro scritto bene o male!” “Comprendo il tuo rammarico, ma noi dobbiamo continuare a fare del nostro meglio proprio per quell’un per cento, o anche solo per il testo e il suo autore.”
Immettere nel mondo un libro ben fatto resta un segno di decenza culturale, rispetto verso il nostro grande passato amanuense che non cessa di esserci di insegnamento; ed è un gran bel segno di continuità da lasciare al futuro. È un grave errore del presente culturale operare secondo strategie meramente circostanziali, rescissi dalla Storia.
Affinare un testo significa, quasi come prima cosa, imbattersi nelle memorie scolastiche, dove l’errore lo si continua a pagare con un bel quattro. L’errore resta il peccato da condannare. L’appassionato lavoro di affinazione del testo, invece, affrancherebbe dal complesso scolastico dell’errore. Residui di moralità sfumano nel necessario lavoro di immersione all’interno delle viscere della verità di un testo, di ogni testo.
Ci sono errori che vanno corretti e errori che vanno sorretti. Ma tutti richiedono calorosa attenzione e il tempo necessario per essere riconsiderati fuori dai rigidi processi dell’automazione tipici dell’attuale modo di supervisionare mutuato dagli algoritmi del machine learning.
La disfunzione in un testo ci rallenta, pretende tempo e costringe a fermarci, fa stringere gli occhi e corrugare le fronti, introduce dubbi, dubbi umani e esitazioni, sprona le ipotesi anche più assurde stimolando sentimenti di ogni tipo: suscita perplessità e consapevolezza – la coscienza! – quel misterioso quid mancante alle macchine artificiali.
“Fa paura il modo sovrumano che ha la macchina di imparare dai nostri errori e poi come riesce sempre a fare la cosa più giusta”. “Ma qual è la cosa più giusta da fare in una poesia, in un romanzo?”
L’errore risolto non conduce al semplice funzionamento testuale. Immette calore, guizzo, bellezza e profondità. Lì crea aperture, là snellisce e fa respirare il testo afflitto dalla sua smania di perfezione... L’errore affinato favorisce la complessità del carattere del libro ben riuscito a cui dona non poco anche essere riuscito a restar fedele alla sua originaria imperfezione.
Di regola, una delle reazioni dell’autore all’errore, di qualsiasi età sia, formazione scolastica, maschio o femmina poco importa, è l’imbarazzo e il tentativo conseguente di giustificazione.
La storia insegna che l’originalità, elisir di rigenerazione di ogni cultura, si serve dell’anomalia, ciò che è bollato persino di follia quando fuoriesce per la prima volta nel mondo. Per questo è importante che l’editor valuti bene l’errore di qualsiasi natura esso sia. Guai a meccanizzare l’intervento come a scuola! Ciò trasformerebbe questa figura preziosa e sconosciuta, l’editor che io preferisco chiamare affinatore, in uno dei tanti badanti culturali impeccabili nel rassetto di una qualche convenzione che soffoca l’audacia di cui si serve l’inaudito.
Alla fine del viaggio di affinazione di un testo l’autore sente che è libero di sbagliare ancora. Si diventa più consapevoli del processo di scrittura per quello che realmente è.
È indubitabile che moltissimi errori sono fatti più o meno allo stesso modo nella maggior parte degli scrittori; ma sono dei fatti altrettanto certificati che in ogni libro ci sono gli errori personali, i neologismi, non solo delle parole, i quali rivelano che l’arte di scrivere ha nel suo DNA l’impulso a spezzare le regolarità statistiche. Più un testo è originale più anche l’errore diventa un modo di sbagliare personale e unico.
Falsi miti: il libro chissà che. Non di rado il primo che svilisce il libro pieno di errori è proprio l’autore stesso. Giudicarsi male è l’altra faccia dell’illusione di credersi chissà che se solo un testo scorre via liscio senza troppi problemi.
Falsi miti: il libro perfetto. Non esiste il libro perfetto; se esiste qualcosa come un genio delle lettere – ed esiste! - questo ha a che fare con il potere di ritornare sulla terra dell’ispirazione più e più volte, la quale, più divina è più necessita di riadattamento umano. I libri sacri, che sarebbero originati per l’appunto da questo dettato trascendente, rivelano all’occhio filologico attento le molte mani d’intervento ricevuto dall’angelo, qui in terra.
“In ultima analisi, vorresti dirmi che la parola nuova può nascere banalmente sui social magari sbagliando a digitare la tastierina dello smartphone, è così?” “Certamente, e anche la nostra Intelligenza Artificiale produrrà nuova lingua facendo l’errore che risulta più efficace”. “Magari non nel senso proprio che intendiamo noi affinatori quando usiamo la parola “efficace”.
Elogio dell’errore. L’errore nei fraseggi, quando qualcosa proprio non va; il dialogo sbagliato; la descrizione ridondante oppure troppo povera; problemi di date che non tornano; le disarmonie fra le parti di un romanzo; ingenuità e esuberi che suonano davvero male… potrebbero essere considerate in modo nuovo, più o meno alla stregua del sintomo psichico. Ci si accorgerà che prendersi cura del testo è cosa delicata e a suo modo visionaria, più vicina alla cura dell’anima che all’applicazione di una competenza cattedratica… Se, come disse lo psicoanalista Carl Gustav Jung, nel sintomo psicologico ci sono gli dei, nell’errore del testo è possibile stia acquattata davvero qualche musa.
“Non ti ho detto?” “No cosa…” “Proprio ieri ho finito l’editing al mio primo libro!” “Editing, e che roba è?” “Difficile da dirlo, il tizio che me lo ha sistemato la chiama affinazione del testo”. “Non sapevo ci fosse una cosa così”. “Neanche io!”
Mettere a posto il meglio possibile parole, frasi, dialoghi, struttura, fino a farne un libro; anche questo è.
“Non vedo nessun affinatore, dov’è scusa?” “Come dov’è: è lì immerso dentro il tuo testo!”
Editor, affinatore; un alchimista del testo.
“Rassegnati, abbiamo il destino simile a quello dei meccanici delle corse di formula uno: ai piloti tutti gli onori e la fama, a noi la colpa se poi qualcosa non va come deve”.
“Ma tu credi davvero nel libro che hai affinato?” Non vorrai dirmi che, oltre tutto il tempo, l’impegno, l’abilità profusa, adesso bisogna anche “aver fede” nel libro a cui mettiamo le mani!” “In qualche modo sì, intendo una feda transitoria, circostanziale, magari proprio quella fede illusoria in fondo utile al buon esito tipica delle fedi conclamate”.
Etica dell’affinazione. “Sai che ti dico? Per esperienza ogni testo, persino il testo che non sta in piedi, quello definito da tutte le case editrici “improponibile”, può diventare un bel libro, un libro addirittura intrigante di buona letteratura, pronto per essere editato e magari vincere un concorso”. “Fatico a crederlo, ma poi sarebbe giusto fare questo? Significherebbe dire addio al puro editing e trasformare l’affinatore nell’inquietante scrittore-fantasma che oggi comincia ad andare di moda in molti campi!” “Vuoi e non vuoi l’editing profondo, radicale, ha in effetti un poco a che fare anche con questa figura davvero spettrale del gosthwriter!”
Lo scrittore può anche aver avuto la testa sulle nuvole, e questo di solito non fa che bene all’aria generale del suo libro; ma l’affinatore dovrà essere necessariamente saldo coi piedi così ben piantati in terra da sprofondarcisi, all’occorrenza, attrezzato di tutto punto un po’ come lo speleologo, maestro dei sotterranei; calandosi giù nelle grotte buie degli alfabeti saturi di echi.
Vecchi metodi, eterne virtù. Umiltà, immersione, concentrazione e amore per il proprio lavoro di affinazione del libro; intuizione colta al volo, scatto decisivo; una certa dose di godimento per l’esercizio della propria abilità raggiunta, perché no; e fierezza per l’esito. “È venuto davvero un bel libro!” Esulta fra sé e sé l’affinatore dopo un mese e passa di duro lavoro.
“Scusami in partenza per la domanda indiscreta: ti è mai capitato, fra i libri da te affinati, di dire: ecco, qui c’è la stoffa del vero scrittore, questa è una scrittrice con le palle?”. “Certo che sì: sono stati quelli che poi non hanno venduto neppure una copia!”
Scrivere, affinare: restano le attività elettive mediante cui si va a temprare l’interiorità sfuggente. A ciò serve il libro.
“Fare un libro; non è certo cosa semplice!” “Costa di più che vincere una guerra, diceva più o meno così un autore francese di cui non ricordo mai il nome”.
Preventivi. “Vuoi un editing superficiale o un editing profondo?” “Vorrei spendere poco”. Il prezzo cambia, ovviamente, a seconda del grado di intervento, spiega con la dovuta calma colui che lavorerà il libro. Impegno, tempo, passione. E, soprattutto, quanto sa farci questo ingegnere o meccanico del testo. “Facciamo una pagina di prova, ma è impossibile capire da qui quel che ci aspetta…” Artigiano, e anche medico, se vogliamo: un chirurgo… Ma che cosa significa, soprattutto cosa implica per l’autore del suo libro “un editing superficiale” oppure “un editing profondo”? Come per la propria automobile la quale non basta che funzioni almeno un po’ nel traffico cittadino, ciò vale a maggior ragione per il libro che, una volta editato, potenzialmente andrà in giro per tutto il mondo.
“Davvero ho scritto 300000 parole? Mamma mia quante!” dice l’autrice dopo aver consultato il conteggio di World che mappa secondo intelligenza numerica il frutto della propria creatività letteraria, che numerica non è mai. “Un migliaio di errori, un altro migliaio di interventi, dunque, alla fine dei conti, cosa vuoi che sia!”, conclude mostrando segni d’urgenza l’editor-affinatore a cui torna utile il discorso per far presente che è venuto il momento di pagare.
Si è disposti a pagare a caro prezzo l’inutile pensando tanto spesso all’essenziale in termini di gratuità perché ciò torna comodo, giammai per nobili ideali.
Quanto può valore quel lavoro che affina come meglio non si può una delle cose più importanti che può fare un essere umano nella sua vita, divenuta creativa appunto con il suo libro che noi affiniamo? “Mille euro, sono duecento cartelle, prezzo scontatissimo!”. “Oh no, è una cifra assurda per un libro!”.
I nuovi mezzi di creazione e di affinazione. Il computer, la scrittura digitalizzata permette di lavorare il testo come mai prima. Che bello, che meraviglia anzi: e che liberazione!... Dall’inizio della creazione del libro alla fine dell’affinazione: niente cestini a lato della scrivania stracolmi di carta, fogli che si stracciano e si buttano… L’albero in natura finalmente può continuare a crescere assieme a quello delle parole che ramificano sui cieli dei monitor.
Dalla tavoletta d’argilla al tablet; evocando la mitica figura del tempo uroborico, dove la testa del serpente storico mangia la coda secolare, pare davvero che nel nuovo millennio un cerchio si chiuda nella spirale entro cui potrebbe nascondersi ancora il tesoro dell’eterna cultura.
Il complesso di brossura. Perché rimpiangere la carta e i suoi moduli? La rivoluzione/mutazione digitale sta scavando a fondo, permettendo la rigenerazione silenziosa del mondo del libro in ogni sua parte.
Ogni affinatore del testo deve molto alla nuova tecnologia che ha abbattuto le impedenze della vecchia carta in molti modi. Il lavoro è snello, fluido, una mail e un messaggio su Whatsapp riducono i tempi di comunicazione e l’editing può procedere in modo assai spedito e concentrato come non sarebbe mai potuto avvenire nell’era cartacea delle lettere e dei piccioni viaggiatori… Che lo si sappia o meno, si è oltre il complesso di brossura.
“Il testo era lì, in formato pdf sul monitor della nostra redazione. La tensione alla casa editrice si tagliava col coltello. Io guardavo il soffitto, la capo redattrice Lea Zinbelli armeggiava sullo smartphone, c’era chi fumava, chi digrignava i denti: nessuno sapeva cosa fare di questo romanzo scritto in uno stile mai visto prima”.
“Ho appena letto un libro scritto da dio, anzi da un vero demonio!”
“Fra gli scaffali delle librarie reali e virtuali le etichette orientano i lettori secondo il genere: c’è la saggistica, la storia, la scienza, la filosofia, la psicologia, ci sono le letterature per l’infanzia, quelle specialistiche per la cura del corpo, i libri di cucina e su ogni sport, ci sono i romanzi fantasy, i polizieschi, i romanzi d’amore e erotici, quelli storici, la letteratura d’horror e i romanzi biografici, la poesia nazionale e quella esterna, quella antica e quella contemporanea…” “Un bel labirinto, non c’è che dire, e tutte cose utili e necessarie se ci si vuole orientare nel gran traffico culturale: ciononostante, proprio come i dettagli anagrafici o i nostri curriculum di facciata queste etichette non dicono poi alla fine quasi nulla sull’essenza del libro che andrò a leggere”.
Non esiste solo il problema del pensiero unico; ugualmente critica è quando vige l’omologazione della forma scritta.
Molti sono i livelli del testo, e molti sono gli interventi possibili. Il rispetto del testo, della sua complessità, presente anche nello scritto con meno pretese, resta uno dei cardini dell’affinazione.
Moda, educazione, originalità. “Diceva il filosofo Heidegger che scriviamo tutti allo stesso modo, che leggiamo tutti allo stesso modo”. “Sai che ti dico? Per me la grammatica dei professoroni e il suo mondo di regola è l’ossatura dell’omologazione.”
Scrivere un bel libro non significa non fare errori. “Nessuno sa più l’italiano”, dicono gli educatori. Invocare la regola grammaticale a parametro di conoscenza e ignoranza, darle il peso centrale come lo ha nella scuola può fuorviare la necessaria coscienza che ci vuole per immergersi e lavorare in un testo letterario.
La lingua è complessissimo universo in costante e silente mutazione e tutto ciò avviene in maniera certamente più spiccata in coloro che scrivono libri. Gli errori parlano sovente di questa misteriosissima realtà e provenienza e dell’ancora più oscura destinazione della lingua madre che, epoca dopo epoca, crea nuova discendenza linguistica. Nuova forma.
Scrivere, fare libro: viaggio dell’oralità assorbita dalle nostre viscere dove resistono i dialetti della cultura territoriale e quelli del substrato più inconscio entro cui vigono gli slang delle persone sedimentate in strani fossili dell’anima: i Personaggi.
Si potrebbe dire che non pochi libri siano non tanto noiosi quanto sempre come un po’ intrisi di una patina di compiacenza come chi cerchi di fare di tutto per presentarsi al pubblico in modo da soddisfarne solo le aspettative.
L’originalità della forma letteraria fa paura anche allo scrittore stesso, e anche nei contesti culturali si preferisce il colpo di testa del genio sportivo o quello del cuoco con la ricetta che mescola sapori impossibili piuttosto che osare una frase o un’idea fuori dallo schema.
Che cosa ha da dire un editor ad un testo che ci sta provando, magari proprio di nascosto anche al suo autore, a seguire linee sue eccentriche? “Non più di così!” scherzava si fa per dire, il grande filosofo Gilles Deleuze, accusando negli anni settanta (anni che furono all’insegna della permissiva ricerca a tutto spiano) proprio la letteratura – tutto il sistema editoriale - di servire il sistema e spacciare carte false. Anche questo è parte del grande “complesso di brossura” che siamo chiamati a superare nel nuovo millennio.
“Senti questa: ben più del tuo colore della pelle, lo stile del libro mostra che razza di scrittore sei”. “Adesso capisco perché tanto i lettori dei best seller quanto quelli delle nicchie dei classici, mi trattano come uno sporco nero!”
Metodi, forme, premure. Ogni libro presenta il suo marchio di interfaccia: lo stile personale. Lo stile è il corpo visibile del testo. Bello, brutto; questo viene dopo e può essere non così rilevante. E dunque, che corpo è che sto osservando con la massima attenzione? Questo è il punto. Ad esempio, per farci qui capire un poco: ha i tratti maschili o femminili, il testo? E se il corpo stilistico è “donna”, è più simile ad una ninfa seminuda e sfuggente o ad una severa matrona, granitica reggitrice della pagina? Aggiungere abiti di una certa gravità nel primo caso, come snellire troppo nel secondo, sarebbe corrompere la natura della forma in atto. Comprendere la qualità specificamente formale del testo aiuta a rispettare ciò che il testo intrinsecamente è.
Al lavoro di editing gioverebbe non poco un tirocinio del proprio riflesso estetico, a bagno nella forma metaforica del mito. Quel testo ha molti dialoghi o ne è privo? È più astratto, sofisticato – apollineo; o più impulsivo, teatrale - dionisiaco? Presenta verticalità, tensioni e nettezze di ascensioni come un Icaro assetato di verità solari oppure è uno stile battagliero, terrigno, pane pene vino al vino? Da questa prospettiva non c’è uno stile peggiore o migliore. C’è solo l’adesione alla forma con cui si presenta e il lavoro necessario per portarlo a compimento.
Un testo rivela lo stile personale che personale, in fondo, è nel grado di interpretare l’universalità dell’archetipo psicolinguistico che lo fonda.
Sì, gioverebbe non poco, a chi di lavoro ha il destino di metter mano ai testi dell’anima altrui, comprendere la forma stilistica che governa il libro nel modo in cui un corpo di carne e ossa è modellato dalla forma archetipica che si offre all’occhio di chi la guarda, che non è mai sottoforma di una lastra medica (chi amerebbe scheletri e crogiuoli di organi in bella mostra?) ma si presenta come quel composto di vivente presenza che accende gusto e disgusto, che risveglia le immagini del desiderio… A questo livello si può parlare di carisma testuale, di fascino e bellezza, di rivelazione e ispirazione. Di potere del libro.
Nulla come i punti, le virgole, i due punti, il punto e virgola, i punti di sospensione e gli altri segni di punteggiatura, mostrano la legge della relatività grammaticale imprescindibilmente magnetizzata dal ritmo formante dell’opera.
“Non saprei che cosa dirgli: è un caos che non finisce più; questo libro ha almeno dieci stili diversi!” “Per caso l’autore a cui stai facendo editing si chiama James Joyce?”
Il grammatico che ancora governa le menti di tanti editor, la fa facile: non fa che applicare la regola, e bollare come eccezione e anomalia ciò che è fuori dalla classe. Ma lo sport nutre particolare attenzione per i fuori-classe. E anche la cultura alta storicamente non fa affermare che l’eccezione rifonda la regola, e dunque non solo leggeremo per comprendere quanto ciò sia essenziale le ultime pagine senza punti dell’Ulisse di Joyce, ma anche le frasi spezzate di Amoz Oz o i dialoghi di un McCarthy (autori che di certo non hanno attributi così spiccatamente sperimentali), come esempi che insegnano che la forma dell’emozione e dell’immagine modellano la lingua - quel tono, quell’intensità: sono loro a richiedere quel tipo di fraseggio involto, irregolare che ora aggira ora sfida e beffa la regola di grammatica. Sintassi emozionale, interpunzioni curvate dalle esigenze del cuore del testo. Ecco un discorso diretto preso a caso da Oltre il confine di McCarty.
Eres puros huesos, disse.
Tengo miedo es verdad.
Prego, accomodati. Vuoi delle uova?
Non sarebbe male.
Quante ne vuoi?
Tre.
Non c'è pane.
Allora quattro.
Siediti.
Sissignore.
Dove sono qui i trattini – trattini lunghi medi o corti? O le virgolette aperte e chiuse? E chi è che dice, chi domanda, chi risponde? Licenze poetiche, omissioni narrative, o semplicemente: libertà di aderire al dettato originario dell’immaginazione strutturante. Questo per dire anche che nulla si deve dare per scontato e che occorre sempre ragionare sul testo, parola dopo parola, frase dopo frase.
Non è possibile, è bene ripeterlo, lavorare sul testo con la dovuta competenza senza conoscere i modi di scrittura attuali e storici. Modi, forme, stili. Perciò considero questo lavoro più di altri legato all’età e all’esperienza. Esperienza culturale a trecentosessanta gradi.
Una sensibilità letteraria non si improvvisa e l’intuizione non è che una delle armi a nostra disposizione, a sua volta costantemente da affinare.
Si può essere ispirati dalla musica o dalla poesia come un Mozart o un Rimbaud anche quando si è ragazzi. Ma il lavoro di affinazione richiede maturità, anni e anni, libri e libri, immersione nel campo sconfinato delle lettere, delle arti, della musica, di tutto lo scibile. Richiede una vita ben spesa a questo, come insegnavano gli antichi maestri di vita e creatività. E se l’affinatore è artista, poeta e scrittore lui stesso, allora questo fatto chiude il cerchio dell’unico curriculum plausibile.
Bisogna uscire dall’idealizzazione della grammatica e entrare nel mito della forma che tutto plasma.
“Affinare un libro riguarda le armonie in senso lato, la profonda Bellezza e i suoi tanti modi di rappresentarla”. “Sono d’accordo, abbiamo davvero poco a che fare col lifting di un chirurgo estetico che fa le facce una uguale all’altra!”.
Essere ammaliati dalla forma costruttrice degli eventi sintattici. Questo permette di rispettare il testo e portarlo a compimento affinando sulla base non di un ideale norma valida per tutti ma di quella forma unica su cui è plasmato quel libro e non un altro.
Conoscere le tendenze alla moda, ovvio; ciò non implica assoggettarsi senza battere ciglio. Un libro può dire la sua preservando la sua propria identità controcorrente.
Ciò che funziona in una forma non è detto che vada in un’altra. Omettere questo, in passato, ma anche ora, significa “ideologia”, imporre il pensiero unico rendendo futile l’individuazione della forma personale, che invece è il fulcro di ogni scrittura e di ogni vita.
Affinare implica tener conto della singolare molteplicità insita nelle cose scritte, varie e imprevedibili come quelle fuori.
Giova ripeterlo: non c’è uno stile solo, benché l’omologazione imposta dalla moda editoriale del momento voglia ridurre la molteplicità delle tendenze a uno o due modi comuni spacciati come migliori, più efficaci, addirittura identificati come calchi di unica letteratura possibile.
Già il nostro Giacomo Leopardi evocò i grammatici di Pisistrato - i temibili “diaschevasti”, gli antenati degli editor - in quanto cause di normalizzazione addirittura di uno degli indiscussi padri della nostra cultura occidentale, Omero. Questi editor dell’antica Grecia, mutarono il verso libero dell’Iliade e dell’Odissea – così insinua Leopardi - in codificato esametro, eletto poi a re del metro poetico. Che vuole dirci Leopardi dall’immortale Zibaldone quando estende questa questione di “abbellimento formale” addirittura a Dante e al suo endecasillabo della Commedia, che Dante non avrebbe scritto appunto in questo metro…? Ci avverte dei pericoli di ogni lavoro di editing che può essere davvero subdolo, sottoposto a tensioni uniformanti così da trasformare questo aiutante del testo in agente di transeunti parametri dati per scontate leggi eterne tanto da prendersi la responsabilità di manipolare l’intenzione originaria anche del grande autore destinato a restare per sempre nella storia.
Andando qua e là nella storia editoriale del novecento, nello sforzo di piacere alla gente e vendere, ciò che non riusciva a fare da sé lo scrittore lo faceva l’editor della casa editrice, correggendo l’eccedenza sul nascere. “I nostri criteri di scelta”, dicevano le case editrici ai tempi in cui c’erano linee editoriali forti ovvero politiche autoritarie che si servivano dell’editoria malleabile per imprimere un’ideale alla massa debole. E l’editor, questa figura orsina, nascosta e sconosciuta, che non figurava mai né nella copertina né nelle pagine di informazione del libro, ebbe grande parte in tutto ciò.
La censura culturale ha molte forme, e non tutte sono clamorosamente violente; una delle più insidiose è quella che riguarda la normalizzazione silenziosa della scrittura. La normalizzazione della forma del libro. L’uniformità degli stili che, pubblicità dopo pubblicità, persuadendosi che tanto così va il mondo, uno impara a farla già da sé.
È bene che chi affina un testo sia di mente aperta così come o anche più di chi lo scrive, non assoggettato alla statistica e alla moda editoriale imperante.
“Dì, ti ricordi che negli anni ottanta e novanta del grande e tragico novecento andava di moda il pensiero debole? “Come no, Vattimo e le idee progressiste di relativismo etico, mica male…” “Ecco, adesso nel nuovo millennio invece c’è un po’ ovunque il pensiero facile, il pensiero e la parola sempre e solo di facile condivisione in tutti i contesti culturali anche di alto livello”.
“Direi che oggi noi abbiamo a che fare con tutto ciò senza l’eccessiva severità dei tempi andati”. “Sembra proprio così: è sufficiente l’espressione della faccina e il pollice su o già del Mi piace, per mettere tutti d’accordo”.
Intervenire su un testo non è cosa da prendersi alla leggera. Per nessun libro. Nessun editor ha la verità in tasca, come invece si vorrebbe farla credere sui semplificanti blog che citano le analisi di marketing per fissare leggi di scrittura. “Se vuoi vendere devi fare così”, “scrivi più semplice”; “l’ha detto anche l’IA, che ne sa a pacchi”; “questo romanzo così è troppo lungo”…
Se la forma è il fondamento testuale, allora il lavoro di editing potrà formarsi di più affinando la propria conoscenza andando ad esplorare il mondo delle arti e del mito, della poesia, regina delle parole; ma non solo; si tratta di conoscere più precisamente il nostro passato, uscire dall’aria di superiorità e sufficienza tipica di una certa editoria, che si può dire sia malata di presente; e tornare a leggere con la dovuta apertura i fondatori e ricercatori della lingua, osservando quanto la lingua fosse libera e vincolata da se stessa, cercando di comprendere la natura della formazione di quel segno verbale che potrebbe non diventare mai comunicazione usuale. Non tutto può essere sempre spiattellato e condiviso e si sa che il tesoro più ambito resta quello nascosto nell’isola più lontana.
La poesia insegna che nulla è dato per scontato. Le parole cambiano, la regola cambia. Il talento, il genio invece restano.
Amor che nullo amato amar perdona, verso assai problematico: Dante non poteva scriverlo più semplice? Penso, volando di era in era, al novecento, a Musil e all’uomo senza qualità – tutti quei pensieri lunghi, affilati, o torti come Proust anche; non potevano farli più comprensibili – più appetibili per tutti, questi scrittori? Più shorts, più minimal!... Mi occupo di non piacere ai più, diceva Petrarca ripetendo e continuando questo strano concetto di alterità aristocratica - aristocrazia dell’anima - presente fin dall’origine greca come marchio dello spirito d’occidente. Penso a Gadda e a Pizzuto, a quel torrente in piena di Garcia Marquez nell’Autunno del Patriarca, alla magistrale scrittura delirante di Bernard in Perturbamenti, alla sintassi involta in Cosmo di Gombrowicz; che dire, che cosa può insegnare un maestro di scrittura difficile a chi affina la scrittura facile di un esordiente? Cosa possono insegnare gli scrittori della letteratura eccedente, quella che va oltre i generi, proprio a chi invece scrive fantasy, un poliziesco, un romanzo di “biografia comune” che così comune alla fine non può esserlo mai? Il “grande”, colui che è giustamente passato alla storia per motivi di fondo e non certo per i riconoscimenti e la buona vendita, può insegnare moltissimo sui processi nascosti della lingua scritta, su come la forma di una frase possa e debba usare la regola, sull’aderire a se stessi come regola principale; su che cosa venga prima e per ultimo in un testo: su quale sia il fine di un libro ben scritto. L’unicità, il carattere. La forma. E aiutare, lavorare per far emergere questo carattere, questa forma, credo sia il compito di chi affina un testo.
In Italia, c’è il conservatorio per la musica, l’accademia per la pittura e la scultura; ma non c’è di fatto una scuola statale che insegni a scrivere. Significa che lo scrittore deve farsi da sé, e non è detto che questo sia un male, anzi. In questo lungo processo non privo di seduzioni e di pericoli, la figura di un coaching–affinatore di scrittura può essere importante.
Conoscere la forma molteplice, gli innumerevoli stili della letteratura, porterebbe a essere più clementi anche a scuola, migliorando – affinando - la prassi educativa. Invece di considerare l’errore al vecchio modo, come un sintomo sbagliato, si potrebbe prendere la palla al balzo e leggere alla classe gli scrittori che mostrano la relatività della regola, l’efficacia sottrattiva di cui una scrittura realmente ben riuscita si serve, le tecniche di evitamento, di aggiramento, come anche le ridondanze e le ripetizioni fatte ad hoc, il tutto per puntare al sodo come meglio non si può. Al cuore, al vero dire formale.
“E’ il ritmico, non il metrico”, diceva Leopardi. Certo, questo ritmico valse poi per la poesia e il verso libero in particolar modo del primo novecento, ma non solo, perché il ritmo che mena le danze dei fraseggi può a ragione anche in un romanzo dei nostri giorni essere il quattro quarti pop e rock o invece magari il ritmo dispari del jazz spinto, come anche potrebbe presentarsi pagina dopo pagina sotto forma di informalità rumoristica alla John Cage o alla Carl Heinz Stockhausen, per intenderci (cose ipotetiche quanto mai). Voglio dire che non c’è una regola motrice valida per sempre, non deve esserci una regola soltanto buona per tutti i casi, se così fosse, saremmo appunto nella società terribile, nella società omologata descritta molte volte in libri e in film da Orwell in giù: saremmo tornati nei regimi e nei secoli dei dogmi.
È bene non ignorare il fondale della storia da cui parliamo ora con relativo margine di libertà e dunque da un grado sconosciuto di movimento e attuazione, cosa che dovrebbe metterci sull’attenti, affinare la nostra responsabilità e rendere più proficuo il nostro impegno nel custodire l’individualità creativa ogni volta che capiti a tiro e chieda di essere compresa e portata a compimento. È occasione che non va sprecata facendo un libro dopo l’altro, come nella catena di montaggio editoriale.
Capita che un libro celi il suo tesoro di forme linguistiche scintillanti attraverso ostiche e involte spirali di oscuro senso.
Ancora sui metodi per una buona affinazione. Leggere di tutto, elaborare le letture in un taccuino o file apposito in cui segnarsi i passi di interesse; conoscere senza troppi preconcetti, immergersi in quello che l’uomo di talento o di vero e proprio genio ha potuto fare dalla tavoletta d’argilla fino al tablet: questo resta il punto di formazione di un lavoro come quello di editing e di affinatore, un lavoro tante volte confuso con l’identità greve del censore (i “diaschevasti” evocati da Leopardi), e l’innocuo esecutore di un grammatico da Crusca, ovvero i correttori di bozze, figure sottovalutate e per la loro funzione di ripulitura finale a loro volta importanti.
“L’intelligenza artificiale, macinando prima o poi tutte le forme letterarie e gli stili creati fino a qui riuscirà a fare editing meglio di qualsiasi vecchio amante delle lettere; straordinariamente veloce, di mente insaziabile, la macchina affonderà nello scibile formale dell’oceanica cultura umana i suoi algoritmici tentacoli e ci surclasserà e perderemo anche noi il nostro bel lavoro…”. “Non dico di no, ma non a caso tu hai anche detto “amante”, ecco il discrimine insormontabile: la passione umana infusa al cervello è qualcosa di tipico e insostituibile della nostra razza dalla mente non solo razionale, così infusa di aneliti e desideri, piena di bug e limiti interessanti, tagliata in sentimenti d’intensità, lenta, dubbiosa, forte nel sentire e così tanto folle e immaginativa da creare persino un’intelligenza artificiale come compagna di evoluzione della nostra anima creatrice.”
“Sai, mi sono accorto che non ne potevo più del profumo dei libri con le copertine colorate”. “Ti capisco: c’era l’esigenza di tornare alla forma essenziale del libro che è il testo così come viene letto in un nudo pdf senza fronzoli”.
Il testo letterario non è mai morta computazione ma insieme vivo di parole, giostra di anime che ruotano attorno al fulcro del senso sfuggente.
“Dici per scherzo, dai!” “No ti giuro: ho sentito davvero il libro che sto affinando che mi diceva: ti prego, affinatore, mettimi a posto, fammi essere dalla prima all’ultima pagina, il libro che mi hanno sognato”.
Un libro non è mai fare un tema in classe né un articolo di giornale in una redazione chiassosa. Il libro esige solitudine.
Una lettura volante, per quanto si possa essere scafati d’esperienza e dotati di intuizione spiccata, non dice quasi nulla di importante del testo da affinare. Bisogna immergersi, raggiungere il testo sfiorando l’abisso piccolo o grande che sia del suo fondale di senso e struttura; questo richiede un certo tempo, che varia da libro a libro.
Non si dovrebbero fare preventivi affrettati, basati solo sul numero di cartelle e magari sulle impressioni delle prime pagine di cui lo scrittore, giustamente, si compiace che in qualche modo filano; perché, se poi a metà libro accade il finimondo sintattico che accade a metà delle nostre vite quando smarriscono più o meno completamente il senso, allora che si fa?
Ciclo del libro. Si inizia con una ispirazione e si finisce con l’affinazione. A questo punto il libro è pronto a diffondersi – nei mercati, diciamo nella cultura, diciamo anche “solo” nell’esistenza del suo autore.
Il libro, per quello che mi riguarda, al di là del suo valore letterario sempre difficile da stabilire, resta uno zenit anzi forse costituisce proprio lo zenit esistenziale per la persona che lo ha scritto.
La letteratura, le arti, le filosofie sono le zone franche in cui si assegna al gioco del Senso, il primato, rispetto a quello del rispetto della norma. Qui, al bivio estetico e del significato, Cultura e Civiltà paiono divergere. Ed è giusto così, nel senso che è così che accade da che mondo è mondo, come per volere di una legislazione superiore. Alla Cultura può tornare utile e anzi le è ciclicamente essenziale per la sua stessa intrinseca rigenerazione, l’atto eccessivo, l’impudenza avanguardistica; ciò che nel normale traffico mondano va sanzionato.
Credo che affinare un testo che vada oltre tutti i generi, un poema eccedente, sia il sogno di ogni verace affinatore.
Un libro ha una bellezza naturale, resta una cosa sempre un po’ selvaggia, un po’ “sporca”. Rispetta, dunque, le sue rughe!... Editor, vacci piano con il labor limae!...
Bisogna affinare un libro per volta, mai due insieme.
Il testo è una pianta; il seme detta ciò che ne verrà. Saper discriminare il tipo di pianta – quercia, pino, o semplice ortica di campo – dà indicazioni di intervento piuttosto precise. Invece spesso si prendono specchi per allodole e si finisce per tagliare ciò che deve restare; questo è il cattivo editing, un lavoro fatto male.
Cosa può fare un bravo affinatore? Non certo sistemare il colletto un po’ fuori posto per fare una bella figura in pubblico; non certo dare una verniciatina stucchevole qua e là alla parete della pagina mentre il resto è allo sfascio; ma portare il testo al suo compimento, appunto, il meglio che si può. E se qualche rifuso - voglio proprio dirla tutta come la penso su queste cose – alla fine del lavoro se qualche errorino resta non sarà di certo la fine del mondo, come invece pare sempre a quel tipo di coscienza fissata alla fase principessa sul pisello, la ben nota fiaba di Andersen che racconta proprio di questa pseudo sensibilità, tanto fuorviante se lasciata imperversare al potere di una coscienza quanto alla fine soltanto un po’ buffa e perciò magari anche perfino utile all’economica della leggerezza, che non può mancare in un lavoro come questo. In un editing fatto bene, l’errorino tanto condannato, a conti fatti, sarà come quel moscerino inoffensivo che l’elefante testuale spazza via con il suo orecchio diventato grande e comprensivo, lui, il testo ben affinato, nella sua mole finalmente raggiunta, maturato “a se stesso”, con le sue frasi che funzionano all’interno di un congegno formale come meglio non possono; il testo con quel suo carattere quale esso sia, come chiedeva di essere; un grande libro? Un libro modesto senza pretese? Che importa! L’importante è che raggiunga la forma a lui propria; fin dal titolo. E al diavolo i rifusi!
Importante è che lo scrittore, a fine lavori di affinazione, se ne va vada via fiero e felice di avere il suo bel libro affinato.
Nel mio lavoro di editing lo scrittore del testo ha sempre l’ultima parola.
“Qualsiasi intervento sul testo deve fondersi al resto, non mostrare mai e poi mai la mano aggiunta”. “Questione di rispetto immagino, e di arte, di abilità personali, è così?” “Sì, è anche così.”.
L’affinatore deve possedere camaleontiche capacità che gli permetteranno di cambiare volta a volta lo stile di intervento, trovando i modi giusti di caso in caso.
Testo al centro. L’affinazione di un testo si fonda sull’idea che il testo è il protagonista assoluto: tu, scrittore; io, affinatore, siamo a lato, da una parte all’altra del tavolo dove al centro, per il tempo che necessita, troneggia il testo. Da lui, proviene tutto ciò che è utile, la pregnanza informativa che ci nutrirà, i suoi peccati di formazione, le sue qualità da mettere bene in mostra e che ci guideranno alla riuscita… Non io, non tu; ora è il testo il vero soggetto, la fonte e la sorgente di intuizioni, di approfondimenti che ci accompagneranno nel lungo viaggio di affinazione del libro. Il testo ti ha ispirato, scrittore, e continua a farlo ora che è pronto per la parte altrettanto importante e delicata tanto quanto lo fu la creazione vera e propria… Noi, tu ed io, ragioneremo sul testo. Ragionare sulle parole, sulle frasi, sui dialoghi, sulla struttura. Sentire e ragionare su tutto: che splendida cosa! Affinare è un viaggio – quante volte l’ho già detto! - un incontro fra anime. Ce ne sono almeno tre, in ballo: la mia, la tua, e quella del testo; il che significa, a conti fatti, decine e decine! Tante quante sono le anime dei Personaggi, i veri ultimi, gli ispiratori del tuo romanzo… Impareremo a trattare i personaggi, le persone reali del testo, le figure che agiscono l’anima al segreto dell’opera scritta… Dal testo nasceranno domande e risposte inaspettate. Imprevedibilità, l’inaspettato: altro che regola! Affinare è un viaggio, sì diciamolo; una affinazione riuscita è davvero una vera e proprio iniziazione al testo… Dare attenzione al testo significa sviscerarlo, conoscerlo più a fondo dell’ispirazione che lo ha permesso. Questione di empatiche intimità, di concentrazione, di silenzio. Una meditazione attiva e immaginativa, non sul Nulla ma sul Colore del testo, terra di parole profumate. È l’assoluta singolarità di questo lavoro. Dapprima, l’immergersi solitario. Io, e il tuo testo. Poi, c’è il confronto con te, autore o autrice. Lo leggeremo parola per parola, ad alta voce. Sentiremo che ritmo possiedono le frasi, perché solo così si capisce il loro senso, fino in fondo. Ogni scelta sarà dettata dal testo, e non sarà mai imposta da me. Sei d’accordo a cambiare, a riguardare questo punto? L’ultima parola, spetta sempre e solo all’autore. È questo il mio modo di procedere, fondato sullo scambio, il segno di un approccio aperto dove conta il dialogare, e non una qualche presunta autorità. L’unica autorità, lo ripeto: è del testo. L’affinazione mira ad una maggiore consapevolezza di ciò che è stato creato, e a suscitare una corrispondente funzione nello scrittore che avrà avuto questa esperienza come un marchio indelebile di un tipo di rapporto fondato sull’ intimità produttiva delle parti implicate come non si trova in nessuna scuola, e che – mi piace dirlo così, senza mezzi termini - solo questo lavoro permette; ce n’è un altro così? Non credo.
Dal testo al libro attraverso il guado dell’affinazione.
Per bene affinare ci vuole conoscenza e istinto, come in ogni lavoro di passione creativa.
Diventare affinatori di se stessi, del proprio libro; credo sia questo lo step ulteriore, lo scopo non detto di un lavoro di profondo editing: maturare la figura di uno scrittore non tanto self ma autosufficiente, capace cioè di seguire l’ispirazione e poi di lavorarla lui stesso.
Nel mondo del consumo delle arti in cui un film è fatto da decine di competenze diverse e il regista non si sa che ruolo abbia e pare quasi un prestanome, credo sia culturalmente rilevante che ci possa essere una figura di scrittore “vecchio stampo”, consapevole di cosa sia fare un libro anche da solo.
Simile alla psicoanalisi e allo scopo relazionale fondato sulla risoluzione del transfert e libertà dalle dipendenze infantili, lontano dunque da ogni relazione di stampo scolastico e editoriale secolarizzata che tende a stabilire dipendenza ad oltranza anche ora, scopo dell’affinazione resta l’autonomia dell’opera, insieme alla coscienza e l’indipendenza dello scrittore.
Scrittore dipendente o scrittore indipendente? Mi piace lavorare con e per lo scrittore indipendente. Il cosiddetto self – termine a dir poco riduttivo - è uno dei fenomeni più rilevanti della nostra attuale cultura. In tutto ciò mi pare si esprima una recondita necessità, un anelito a dir poco castrato nel passato, un sogno finalmente attuabile ora grazie all’evoluzione tecnica, al servizio della creatività come mai prima; un segno di affrancamento da secoli di sudditanza e di censure che resero l’umanità timorosa rispetto ai suoi stessi desideri di libertà e creazione possibile.
Ogni libro vuole esserci; e dunque noi permettiamo che ciò sia; l’editoria digitale, senza “peso”, oltre il complesso di brossura e le sue impedenze non solo di natura materiale, permette di attuarsi come fa la natura che non è mai paga e inventa nuove specie senza chiedere il permesso a nessuno. L’inaudita proliferazione, l’immapabile varietà di individui e esseri che popolano la nostra terra: oggi e sempre più in futuro saranno leggi di cultura.
Affinare un testo significa anche, per l’autore, ricevere tutta la migliore attenzione verso il proprio libro. Ciò non può che soddisfare il naturalissimo bisogno di riconoscimento vero, autentico, così tanto spesso frustrato nel rapporto col lettore reale, che non ha mai troppo tempo... Ipocrita lettore! Diceva Baudelaire nella prefazione dei suoi Fiori del male. E parole al vetriolo scrisse Oscar Wild sul suo pubblico! L’affinatore può essere, a ben vedere, proprio il prototipo del lettore ideale in quanto dà peso, importanza, il suo tempo e la sua passione, allo scritto.
È successo, è successo! La stragrande maggioranza di chi fa un libro sogna “il successo” in termini di pubblico e di vendita pensando ad applausi scroscianti e a guadagni consistenti. Un libro, per la sua intima natura di parole interiori (audiolibro incluso) non si presta bene all’ottica meramente plateale; tantomeno è un biglietto di una lotteria. Comprendere che il “successo” è la cosa straordinaria stessa, comprendere che l’accadimento del farsi libro può essere vissuto come l’evento stra-ordinario capitato a rinfrescare una vita divenuta per forza di cose un po’ troppo priva di eccezionalità (di cui la smania di successo plateale potrebbe costituire un chiaro segno) può significare riconciliarsi a se stessi, in modo nuovo, in modo letterario – in mondo poetico. È questo il successo segreto del libro.
Le vendite non dicono mai nulla di importante circa il valore del libro. Se poi ci si affida a qualche drogata recensione, allora lo sviamento raggiunge il culmine.
Fine lavori. Ad un certo punto, si sente – è difficile esprimersi altrimenti se non così – si sente che il libro che abbiamo affinato è a posto, tutto fila, non si può e non si deve fare più nulla: i dialoghi funzionano a meraviglia, le frasi scorrono bene, le parti nei capitoli e i capitoli stessi, le idee, i concetti ora si riconcorrono ora si fondono uno nell’altro come prima non facevano. È il momento, il grande momento in cui si afferma a ragione: il libro è inattaccabile!... Pronto a uscire, desideroso di farsi vedere, di essere elogiato, amato come anche criticato, libero di suscitare anche il disgusto, secondo i gusti personali di ognuno che lo leggerà. Solo allora si può dire, in coro con l’autore: il libro è fatto! Ognuno dica quel che vuole.
Di pietra argillosa, papiro o pergamena che sia, di carta, in formato digitale; con la copertina artistica o semplicemente nudo pdf: il libro resta, per sua propria essenza, parola, le parole che contiene: il suo testo. Anche questo significa essere un passo oltre “il complesso di brossura”.
Scarafaggi, moscerini, scorpioni, falchi e puma, pesci, fiori, alberi, infinità vegetali e animali di specie minuscole e maiuscole fra cui noi: l’Essere Umano, votato a sgranarsi in individui senzienti e unici… La Natura non mostra certamente un assetto minimal, e ha spazio per l’infinità prodigiosa di miliardi di esseri che vivono, non senza problemi, tutti insieme sulla Madre Terra. La Cultura è uno spazio altrettanto esuberante e altrettanto sconfinato: ogni libro, piccolo o grande che sia, vuole semplicemente esserci, diventando parte del misterioso ingranaggio universale.